Dal 19 aprile al 16 maggio 1943 la popolazione ebraica reclusa nel ghetto di Varsavia si ribella alle autorità tedesche. Yossl Rakover resiste fino all'ultimo e prima di morire lascia un messaggio in una bottiglia e si rivolge al suo dio per ottenere spiegazioni.
Varsavia, 28 aprile 1943.
Io, Yossl Rakover, figlio di Dovid, nato a Tarnopol, scrivo queste righe mentre le case del ghetto di Varsavia sono in fiamme. Quella dove mi trovo è una delle ultime che ancora non bruciano. Già da alcune ore siamo sottoposti a un cannoneggiamento di grande violenza, e il fuoco concentrico sbriciola e distrugge i muri intorno a me. Non durerà molto e anche questa casa. Come quasi tutte le altre sarà trasformata in una tomba.
Non tenterò più di salvarmi né fuggirò. Allevierò la fatica al fuoco inzuppando i miei vestiti di benzina. Ne ho ancora a disposizione tre bottiglie, dopo averne rovesciate due decine addosso ai carnefici.
È stato un grande momento della mia vita, e ho riso selvaggiamente. Mai avrei immaginato che la morte di esseri umani, se pure nemici e nemici di tal fatta, potesse rendermi tanto felice.
Un carrarmato è piombato nella nostra via. Bersagliato da ogni dove con bottiglie incendiare ha proseguito la sua strada. Io e i miei compagni abbiamo aspettato che passasse proprio sotto di noi. Ha preso subito fuoco, e sei nazisti avvolti dalle fiamme sono schizzati fuori. Ah se bruciavano! Bruciavano come gli ebrei che avevano incenerito.
Ho a disposizione ancora tre bottiglie di benzina, e sono preziose come il vino per l’ubriacone. Quando ne avrò vuotata una su di me, vi introdurrò i fogli su cui sto scrivendo e li nasconderò tra i mattoni della finestrella di questa stanza. Se un giorno qualcuno li dovesse trovare, potrà forse capire cosa ha provato un ebreo, uno tra milioni, morto abbandonato dal Dio nel quale credeva. Le altre due bottiglie le farò esplodere negli ultimi istanti sulla testa di chi verrà a stanarmi.
Dodici uomini eravamo in questa stanza all’inizio dell’insurrezione, e per nove giorni abbiamo combattuto. I miei undici compagni sono tutti morti senza un grido, in silenzio. Anche il più piccolo - aveva cinque anni e solo Dio sa come fosse arrivato qui - ora giace vicino a me, con un sorriso appena abbozzato, di quelli che appaiono sul viso dei bambini addormentati quando sognano: persino lui è morto con la stessa calma sublime dei suoi compagni adulti. È accaduto questa mattina. Si era arrampicato sul cumulo di morti per dare un’occhiata fuori, attraverso la finestrella murata a metà. È restato alcuni minuti così, accanto a me, poi improvvisamente è caduto all’indietro rotolando giù sui corpi degli uccisi, ed è rimasto immobile come una pietra. Sulla sua piccola fronte pallida, tra due ciocche di capelli neri, una macchia di sangue: un proiettile lo aveva colpito alla testa.
Non ho più munizioni oltre alle bottiglie di benzina rimaste. Dai tre piani superiori sparano ancora ma, non posso sperare in alcun aiuto, perché le scale sono state distrutte dalle cannonate, e credo che l’edificio sia sul punto di crollare. Scrivo queste righe con la faccia al suolo: intorno a me i miei compagni morti. Guardo i loro volti e mi sembra che vi aleggi una tranquilla ma divertita ironia, quasi mi dicessero: “Pazienta ancora un po’, stolto uomo, tra pochi istanti tutto sarà chiaro anche a te”. Questa divertita ironia spicca in particolare sul viso del bambino. Sembra sorridere. Io, che sono ancora vivo e sento e penso ancora come un uomo di carne e sangue, ho l’impressione che rida di me. Rida di me con quel riso calmo, sottile, eloquente, tipico delle persone sagge quando parlano con chi non sa nulla ma crede di sapere tutto. Sa già tutto, tutto gli è ormai chiaro, sa persino per quale ragione è nato e morto così presto, a soli cinque anni. E se lo ignora, in quel mondo migliore dove ora si trova, forse tra le braccia dei suoi genitori assassinati, sa perlomeno che la questione è del tutto irrilevante e priva di significato.
Qualche ora e lo saprò anch’io. Se il mio volto non sarà sfigurato dal fuoco, forse avrà lo stesso sorriso.
Concedimi una domanda Dio, prima di morire: abbiamo peccato? Di certo è così. Perciò veniamo puniti? Posso capirlo. Però voglio sapere: esiste al mondo una colpa che meriti un castigo come quello che ci è stato inflitto?
Tu dici che ripagherai i nostri nemici con la stessa moneta, senza pietà? Ne sono convinto, di questo non dubito. Voglio però sapere da Te: esiste al mondo una punizione che possa fare espiare il crimine commesso contro di noi? Rispondi. Tu che hai nascosto il Tuo volto, abbandonando gli uomini ai loro istinti, voglio chiederti, e questa domanda brucia dentro di me come un fuoco divorante: che cosa ancora, sì, che cosa ancora deve accadere perché Tu mostri nuovamente il Tuo volto al mondo?
No, non Ti chiedo di annientare i colpevoli. È nella logica inesorabile degli avvenimenti che alla fine si annientino da soli, poiché con la nostra morte è stata uccisa la coscienza del mondo, poiché un mondo è stato assassinato con l’assassinio d’Israele. Gli assassini si sono già condannati da sé, e alla sentenza non potranno sottrarsi. Tu però pronuncia una sentenza doppiamente severa su quanti tacciono dell’assassinio!
La morte non può aspettare oltre. Dai piani superiori gli spari si fanno ogni istante più isolati. Cadono gli ultimi difensori di questa postazione, e con loro cade e muore la grande, bella, devota Varsavia ebraica. Il sole è ormai al tramonto, e ringrazio Dio che non dovrò rivederlo mai più. Il bagliore degli incendi penetra dalla finestrella e il frammento di cielo davanti a me è rosso e increspato come una cascata di sangue. Tra un’ora al massimo sarò con la mia famiglia, e con milioni di altri uccisi del mio popolo, in quel mondo migliore in cui... [uno sparo, buio]
Lettura e interpretazione di Dario Manera.
Testo adattato da: Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, Milano, Adelphi, 1997.
Allestimento scenografico realizzato dagli studenti dell'Accademia Ligustica di Belle Arti: Valentina Viviano, Arci Vrabie, Isabella Lai, Eleonora Deferrari.