Contrariamente a quanto avvenne in Germania, in Italia, piuttosto che punire apertamente l’“abominevole vizio”, il regime fascista, seguendo una politica già portata avanti in precedenza, preferì ignorarlo.
In un’ideologia come quella fascista, in cui il culto della virilità era continuamente predicato dalla propaganda, l’omosessualità non poteva che essere repressa, condannata ed emarginata quando diventava visibile. La censura, poi, contribuì a far cadere nel silenzio una questione “imbarazzante”.
Sulla base di questa politica del silenzio, il codice penale italiano non previde mai la penalizzazione dell’omosessualità, demandandone la repressione alla sfera morale e religiosa. Così, quando nel 1927 venne proposto di inserire nel nuovo Codice penale un articolo che puniva l’omosessualità, l’istanza venne respinta. La motivazione espressa dalla commissione incaricata di dare un parere sul progetto, fu che in Italia “per fortuna ed orgoglio” l’omosessualità non era tanto diffusa da giustificare un intervento del legislatore. Qualora fosse stato necessario intervenire, si affermò, le forze dell’ordine possedevano già gli strumenti necessari.
Tali strumenti erano tre tipi di provvedimenti: la diffida (una sorta di avvertimento pubblico a abbandonare un comportamento “criminoso”, pena l’incorrere in provvedimenti più severi), l’ammonizione (una specie di arresti domiciliari della durata di due anni) e soprattutto il confino, cioè la residenza coatta in un luogo lontano da quello in cui la persona viveva, con limitazioni della libertà personale.
Poteva bastare una diceria per far scattare una denuncia al Questore. Senza che l’indagato ne sapesse nulla, partiva un’indagine che quasi sempre portava all’incriminazione davanti alla Commissione Provinciale. Solo al termine delle indagini l’interessato ne veniva informato: con l’arresto in caso di confino, con la comunicazione in caso di diffida o ammonizione. Di questo procedimento furono vittime moltissimi omosessuali.
Accusati di “comportamento contrario alle disposizioni del regime sull’educazione dei giovani”, “attentato alla morale e all’integrità della razza” e di “delitti contro la razza”, decine di omosessuali furono spediti al confino in isole sperdute, come Ustica e le Tremiti; altri furono condannati al lavoro forzato nelle miniere di Carbonia, centro minerario fondato dal regime in Sardegna.
L’asprezza delle condizioni di vita dei confinati, associate al peso del disagio che veniva di fatto a gravare anche sulle famiglie d’origine sia per motivi economici che morali, spesso creava tali disturbi psichici da portare il confinato al ricovero in manicomio, che finiva per diventare una forma sussidiari a di confino.
La condanna al confino significava l’allontanamento da parenti, amici, compagni, ma anche la condanna pubblica e l’ostracismo sociale. L’arresto portava con sé traumatiche conseguenze: molti parenti rifiutarono di avere contatti con i confinati per omosessualità; vittime di una mentalità in cui l’omosessualità era un peccato imperdonabile, gli omosessuali stessi soffrirono per il “disonore” gettato sulle proprie famiglie. Scrisse Orazio B., un confinato omosessuale, al Ministro della Giustizia:
“É da otto mesi che sospiro la libertà tutti i giorni, in tutte le ore, in tutti i momenti... Quattro lunghi mesi di prigione, pene e vergogne e, di più grave, una manata di fango sul viso di quattro sorelle e tre fratelli e dei miei onestissimi genitori. Perché tutto ciò? (...) Mio padre fece enormi sacrifici per mantenermi in collegio (...) Ora immagini questo Onorevole Ministro il cordoglio del mio amato genitore. Quale disonore per lui!”
La vita al confino era dura: gli omosessuali vennero isolati dagli altri confinati. La legge, inoltre, imponeva di trovare un lavoro stabile, impresa difficile in isole piccole e povere. I pochi soldi che lo stato passava ai confinati, inoltre, non erano sufficienti per vivere. Molti chiesero il trasferimento in Comuni della terraferma, dove la vita sarebbe stata meno dura. Quasi nessuno lo ottenne.
Si calcola che le condanne al confino politico, tra il 1936 e il 1939 siano state circa 90, 40 delle quali comminate dal solo questore di Catania, Molina, autore di una delle poche grandi campagne repressive compiute in Italia in quel periodo. Come ha rilevato lo storico Giovanni Dall’Orto, la caratteristica principale della politica fascista fu caratterizzata dall’inasprimento della tradizionale repressione morale ma non penale: dopo aver rifiutato la penalizzazione dell’omosessualità in quanto “vizio” estraneo al carattere italico, perseguirlo ufficialmente significava ammetterne l’esistenza e dargli una rilevanza prima negata.
Pertanto, più che le condanne penali, si continuarono a perseguitare gli omosessuali in base al Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 1931. In base ad esso, la polizia poteva perseguire e punire, dopo un processo sommario, senza necessità di prove, tutti coloro il cui atteggiamento fosse considerato scandaloso. Molti omosessuali furono perciò vittime di pestaggi, di “purghe” all’olio di ricino, licenziati da enti pubblici, ammoniti.
Con l’entrata in guerra dell’Italia, tutti i confinati vennero mandati a casa, le pene commutate in due anni di ammonizione.
Nessun riconoscimento spettò agli ex confinati omosessuali alla fine della guerra. Alcuni di loro chiesero la pensione come ex confinati. Nulla però risultava dai loro dossier, dove solo un numero in codice indicava la loro reale condizione di confinati. Nessuno riuscì ad ottenerla, così come nessuno riuscì ad ottenere la riabilitazione da parte dello Stato.
Proposta di confino da parte del Questore ai danni di due omosessuali in base alle allora leggi vigenti in materia di pubblica sicurezza (7 agosto 1935). (orig: www.giovannidallorto.com)
Le sanzioni erano previste dal Testo Unico di Pubblica sicurezza del 1926 e poi da quello del 1931. Una persona poteva essere denunciata dalla “voce pubblica” al Questore, il quale faceva partire un procedimento dando poi l’incartamento ad una Commissione provinciale, anche senza informare l’interessato.
Poteva quindi essere inflitta una sanzione amministrativa,una volta che la Commissione Provinciale si era pronunciata, avveniva l’arresto, nel caso di confino, oppure la comunicazione alla persona nel caso della diffida o dell’ammonizione.
Verbali delle dichiarazioni rilasciate dalle madri di due giovani omosessuali (Mentana – Lazio - 03/01/1936 - XIV Era fascista). (orig: www.giovannidallorto.com)