Quando sono nato la mia famiglia viveva a Genova, in via XX Settembre. Nel 1938 avrei dovuto iniziare a frequentare la prima ginnasiale quando, in ottobre, furono emanate le leggi razziali. Peccato: il Liceo D’Oria era a pochi metri da casa, ma non era accessibile agli ebrei. Mio padre ne aveva seguito, interessato, la recente costruzione e mi diceva: “Quando sarai grande andrai a studiare lì”. Invece andai alla Scuola Svizzera di via Felice Romani.
Nel giugno del 1940 Mussolini dichiarò guerra a Francia e Gran Bretagna. I parenti di mio padre che vivevano a Firenze decisero di emigrare in Cile e lo sollecitarono più volte a raggiungerli. Mio padre era un uomo tranquillo e diceva: “Non ho mai fatto male a nessuno: che cosa dovrei temere?”.
Quando l’8 settembre 1943 il maresciallo Badoglio annunciò l’armistizio con gli alleati ci accordammo con dei nostri amici per trasferirci a Celle Ligure in una villa di loro proprietà sulla collina, con il patto che non ci saremmo mai fatti vedere e quindi non saremmo mai usciti. Avrebbero pensato a rifornirci due loro parenti che avrebbero abitato con noi e fatto la spesa in due posti diversi, per non far sospettare la presenza di tanta gente in casa.
Nell’aprile del ’44 si venne a sapere che l’esercito tedesco intendeva requisire le ville della collina. I nostri amici pensarono a come farci fuggire per poi tentare l’espatrio in Svizzera. Quante volte sono tornato a pensare a quei momenti e alle alternative che avremmo potuto scegliere. Le due persone che avrebbero dovuto farci da guida sul percorso verso il confine ci hanno venduti ai repubblichini e così fummo portati in una caserma di frontiera e poi fummo condotti alla prigione di Bormio, dove gli uomini furono separati dalle donne; arrivammo quindi a Como la sera del 21 aprile e dopo pochi giorni fummo caricati su un camion e portati a San Vittore, il carcere di Milano.
In uno dei primi giorni di maggio fummo stipati su un camion e portati in un sotterraneo della Stazione Centrale, fatti salire su un grosso ascensore e caricati su un carro bestiame. Ci vollero 24 ore per percorrere la non grande distanza che separava Milano da Carpi. Da Carpi una corriera ci portò al campo di Fossoli, da dove il giorno dopo era prevista una partenza per destinazione ignota.
La partenza fu preceduta da un breve discorso del vice capo campo Hans Haage. Ci disse: “Finora siete stati in villeggiatura, ora andrete in campi meglio organizzati”.
Fummo caricati su carri bestiame. Io e mio fratello eravamo insieme. Già a Fossoli mia madre aveva chiesto di andare assieme a mio padre e a mia sorella. Haage l’aveva accontentata, ben conoscendo la destinazione. A Innsbruck il nostro vagone fu aperto. Nel vagone dove erano i miei era scritta la destinazione: Auschwitz. Conoscevamo quel nome. Le nostre speranze di rivederci erano pressoché annullate. Non avevamo mai invece sentito parlare della nostra destinazione, che avevamo letto sulla targhetta posta sul nostro vagone: Buchenwald.
Lì arrivammo, dopo giorni di viaggio, a notte fonda.
Quando si fece giorno entrammo nell’ingranaggio dell’accoglienza. Ci portarono alle docce, dove posammo il nostro bagaglio e le nostre vesti. Guardavamo timorosi in alto: sarebbe uscita acqua o gas? Ci inondò un getto gelido.
Ci chiesero nome, cognome e poi mestiere, titolo di studio, lingue conosciute. Sembrava l’ufficio di collocamento di un’organizzazione perfetta. Qualcuno disse cuoco sperando di essere inviato in cucina; mio fratello disse medico, parola che aveva rapidamente imparato in tedesco. Ci fu assegnato un numero: il mio era 44573, quello di mio fratello 44529; altri numeri erano distanti. Come mai? Scoprimmo poi che erano numeri riciclati di prigionieri morti; più volte riciclati.
Capimmo rapidamente che il segreto della sopravvivenza era cercare di lavorare il meno possibile. Il territorio grande e il numero dei guardiani ormai esiguo ci permettevano momenti di sosta. L’arrivo delle SS di sorveglianza era segnalato “in codice” e, al segnale, si riprendeva il lavoro.
I compagni di prigionia più anziani ci dicevano che eravamo arrivati nel momento del bengodi, che la vita era diventata più tollerabile. Il numero dei guardiani era fortemente diminuito e gli atteggiamenti meno crudeli e sadici. Ma si continuava a morire: il crematorio lavorava a tempo pieno.
Si sapeva che gli alleati si stavano avvicinando. Anche nei notiziari della radio germanica venivano nominate città che non erano molto distanti da noi. Che cosa sarebbe successo? Il comando ci informò che sarebbe iniziata l’evacuazione del campo. I primi giorni del mese di aprile del 1945 iniziarono le chiamate per l’evacuazione. Si sentivano spari e raffiche per uccidere o intimidire chi si ribellava. La nostra baracca non fu chiamata. Ormai si udivano i colpi dei cannoni degli americani e si vedevano piccoli aerei di ricognizione con il contrassegno dell’aviazione USA: Gli alleati dovevano essere a pochi chilometri. Le SS erano ormai pochissime e timorose. Probabilmente la maggior parte erano state chiamate al fronte. Il crematorio non fumava più; i morti venivano portati vicino al crematorio e ammassati in grandi cataste. Intorno all’undici aprile vedemmo alcuni internati con i fucili in mano. Poche ore dopo arrivò una jeep con due americani a bordo. Eravamo liberi!
Passarono non pochi giorni prima di avere il permesso di uscire dal campo. Si temevano contagi: tra i prigionieri la tubercolosi era molto diffusa. Con mio fratello partimmo a metà giugno e arrivati a Monaco incontrammo una signora conosciuta a Fossoli, che ci disse che il resto della nostra famiglia era stato selezionato per la camera a gas appena arrivato ad Auschwitz.
Con vari mezzi e con molte difficoltà tornammo a Genova.
Tutti dicevano che ero molto bravo perché avevo ripreso a studiare senza perdere tempo e sembravo bene integrato. Soltanto parecchi anni dopo mi sono reso conto di avere vissuto un lungo periodo da disadattato. Forse lo sono ancora.
Chiara Bricarelli
(Intervista a Gilberto Salmoni)
Testo adattato da: Chiara Bricarelli (a cura di), Una gioventù offesa, Firenze, Giuntina, 1995.