C’era una volta, in un tempo lontano, un ragazzo dotato di molte virtù, fra le quali risplendevano il coraggio e la lealtà.
Il suo nome era Azrael e il suo aspetto era quello di un angelo. Il suo sguardo, colorato d’azzurro, trasmetteva la serenità di coloro che non dubitano, mentre dalla sua carnagione e dall’oro dei capelli, rifulgeva, chiara e forte, la magia del sole a mezzogiorno. Figlio di un antico popolo errante, Azrael era giunto in quella terra straniera all’età di sei anni, in compagnia dei genitori e del piccolo Samuel.
Nel suo nuovo paese, Azrael rimase affascinato dalla forza impetuosa dei fiumi, dall’abbraccio freddo delle foreste scure, dalla tranquillità erbosa dei pascoli sconfinati, dalla verticalità spigolosa delle montagne lucenti; così come rimase colpito dall’imponenza delle città, pulsanti di vita, dalla maestosità degli antichi palazzi, dall’importanza della storia che trasudava da strade, musei, monumenti, dalla cultura che sentiva racchiusa in un passato ricco di sapienza. Tutto ciò che lo circondava, viveva di ordinata energia e risplendeva di bellezza.
Azrael, avido di novità e conoscenza, cercò di imparare quanto più poteva da quel mondo, che ai suoi occhi appariva perfetto. Ma un giorno tutto cambiò, e quel mondo perfetto si rovesciò, d’un tratto, nel suo opposto: paura, miseria, fame, disperazione, divennero allora gli attori di una terribile tragedia, messa in scena da uomini immemori e crudeli, ammaliati dai sogni di conquista di un folle e grottesco ometto baffuto.
Ma quella immane tragedia collettiva non fu l’unica ad abbattersi sulla vita di Azrael: Samuel, il suo fratellino, si era ammalato, ammalato di testa. All’inizio, aveva incominciato a parlare in modo strano, e a chiudersi fra sé e sé in sempre più inesplicabili silenzi. Ed ora, ora era chiaro che qualcosa di inesorabile stava divorando la sua mente, affievolendone la volontà e nascondendone la coscienza interdetta in qualche luogo inaccessibile.
L’unica possibilità di cura per il piccolo Samuel era il ricovero nella leggendaria Haus des Friedens, un ospedale psichiatrico che era sfuggito alla Aktion T4 e che era rimasto, quindi, un’oasi felice di follia “buona” nella follia maligna del mondo di fuori.
L’edificio della Haus des Friedens presentava una facciata austera, bucata da immensi finestroni, che proiettavano all’interno le ombre inquiete degli alberi in giardino. La struttura dominava una collina acerba, stretta da un assedio di abeti e cipressi; al suo interno erano ospitati trecento pazzi o presunti tali, ciascuno perso nella confusione o nella lucida autarchia del proprio delirio.
Ogni giorno alla stessa ora, Azrael si recava in questo luogo di pena e di oblio, per dividere con il suo fratellino un tempo silenzioso, gravido di amore e delicatezza. Dall’angolo remoto dell’anima nel quale si era rifugiato, da tempo Samuel non comunicava più con nessuno: tracciava strani segni nell’aria, con dita infantili che inseguivano chissà quale pensiero. Le sue mani inarrestabili erano l’unica parte veramente viva del suo corpo bambino.
Azrael si perdeva in quel moto perpetuo, frustrato nel desiderio di entrare nel mondo segreto del fratello, del quale avvertiva soltanto le fluttuazioni d’aria, il lascito impalpabile di quei suoi movimenti maniacali.
Durante una delle sue tante visite senza tempo o senso apparente, avvenne qualcosa destinato a cambiare il corso di molte vite, se non addirittura il corso della storia. Ciò che accadde fu questo: con motori rombanti e gomme stridenti una mezza dozzina di Kübelwagen, accompagnate da una decina di camion vuoti e scoperti, salirono la collina e si fermarono sullo spiazzo ghiaioso prospiciente l’ospedale. Cinquanta giovani soldati, impeccabili nella perfezione delle uniformi e nella marzialità del contegno, posarono i loro lucidi stivali su quel suolo ancora inviolato, per lasciarvi il loro marchio di morte. Venti di essi, a coppie, si posizionarono ai lati dei camion. Due si fermarono a guardia del portone di ingresso, mentre gli altri diciotto si mossero, in gruppi di tre, verso i sei piani dell’edificio. In meno di un’ora questi efficienti strumenti del Male avevano rastrellato tutto l’ospedale, e avevano radunato e smistato sui dieci camion i trecento matti che vi avevano trovato.
L’esodo di quelle creature bizzarre nei loro informi pigiami color asfalto, per un po’ aveva riempito l’aria di lamenti, urla e imprecazioni. Poi, le sferzanti note acute delle MP40 (Mauser Maschinen Pistole 40) posero fine anche alla muta protesta dei quarantotto membri del personale medico e infermieristico.
Nella confusione generale le Schutz-staffeln non si accorsero, però, che i conti non tornavano: fra i pazzi, sui camion, ce n’era uno in più dei trecento previsti. Azrael infatti, per non lasciare il fratellino, aveva avuto la prontezza di indossare una casacca abbandonata su uno dei lettini, e si era finto pazzo anch’egli, percorrendo inerme, come tutti gli altri, la sua breve, terribile via crucis fra i calci e le spinte grossolane di quei biondi aguzzini.
Il viaggio non fu lungo, ma fu molto penoso. La meta, si rivelò essere un fatiscente edificio privo di riscaldamento, dove i trecento matti – più uno – vennero stipati in camerate spoglie, senza servizi igienici, con dei luridi materassi gettati alla rinfusa per terra e qualche logora coperta qua e là.
Azrael era incredulo e spaventato, mentre cercava di capire il senso di quella aberrante operazione, tentando, al contempo, di sfuggire all’ipnotico brusio di tutte le menti disturbate e sofferenti che lo circondavano.
Purtroppo, con indicibile angoscia il giovane infiltrato non tardò a darsi conto del tragico scopo della loro deportazione, sorella di tante altre passate e future. Una rabbia sorda e incontenibile cominciò a montare nel suo animo puro e coraggioso, rabbia che lo spinse ad agire: evidentemente, era giunto il tempo che il destino racchiuso nel suo nome si compisse.
Fatto sta che in una sola notte Azrael, il finto pazzo dall’aspetto d’angelo, con poteri che non ci è dato conoscere, fece convergere la poderosa e folle energia di tutte quelle menti alienate nella forza evocatrice di un’unica potentissima parola: Freiheit, che gridata all’infinito da trecentouno prigionieri, fu lanciata al mondo da tutti quei petti e da tutte quelle bocche come una palla di fuoco che incenerì le inferriate delle finestre, arse i materassi luridi, e rotolò attraverso i corridoi per rimbalzare nelle cucine vuote, nei bagni lerci e intasati, nei solai ingombri, nelle cantine umide; un’unica parola, Freiheit, che valicò montagne, guadò fiumi, percorse strade, impregnò il suolo, l’erba, gli alberi, per essere sospinta dal vento e piovuta dalle nubi; un’unica parola, Freiheit, che entrò nelle case, nelle chiese, nelle scuole, nelle piazze, per riempire gli animi di coraggio e le menti di passione, per armare i giusti e ridare la speranza; un’unica parola, Freiheit, che gridata all’infinito da tutta una nazione coesa nel pensiero e stretta nella morsa di una colpa condivisa, fece impazzire gli aguzzini e trionfare la giustizia.
Gli araldi del Male, da un giorno all’altro, si arresero tutti, e qualcuno dice che chi, fra di loro, non è cambiato nel profondo di se stesso, sia scoppiato come una bolla di sapone.
Ora la parola Freiheit è scolpita dappertutto, in quel grande paese, su tutte le porte delle abitazioni, delle chiese, dei municipi. Nel nome di quell’unica parola è sorta una nuova Nazione, dove il tempo scorre libero per tutti, e dove c’è una città con dentro un enorme edificio che s’appoggia a una collina acerba, dove da immensi finestroni proviene il canto armonioso di trecento matti, diretti da un giovane con l’aspetto di un angelo e da un bambino che, con inquiete dita infantili, trasforma in gesti la melodia delle note.
Questa è la storia che tutti noi avremmo voluto raccontare, ma purtroppo sappiamo qual è stata – ed è ancora – la realtà.
Barbara Garassino
Musiche da:
Muse, Drones
Richard Wagner, Lohengrin – Overture