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Quando furono promulgate le leggi razziali, nel 1938, io avevo tre anni e mio fratello Piero due. Il fatto che non fossimo stati iscritti all'asilo come molti dei nostri amici mi aveva turbato abbastanza, anche se la mamma ci diceva che noi avevamo la nostra governante personale. Il non andare a scuola mi pesava molto, anche se la decisione mi fu presentata come un privilegio: «Pensa che bambina fortunata, possiamo fare la scuola a casa, facciamo venire la maestra da noi e tu e tuo fratello eviterete di prendervi tutte le malattie infettive come i bambini che vanno a scuola...». Ci comprarono un banco, un banchetto rosa, molto simile a quelli della scuola «vera», con il calamaio, il leggìo. Tutte le mattine la signorina Di Capua, un’insegnante elementare che era stata cacciata dalla scuola pubblica perché ebrea, veniva a casa nostra a darci lezioni private.
Il motivo reale della mancata iscrizione era che dal 1938 i bambini ebrei non potevano più frequentare la scuola pubblica. Per continuare a studiare, quasi tutti i bambini ebrei genovesi espulsi dalle scuole pubbliche si erano iscritti alla scuola ebraica che si era costituita rapidissimamente il giorno dopo l'entrata in vigore delle leggi razziali. Le lezioni erano tenute da insegnanti ebrei, a loro volta espulsi dalle scuole pubbliche; capitava spesso che un insegnante di liceo facesse lezione ai bambini delle medie o delle elementari, e che un professore universitario diventasse insegnante dell’improvvisato liceo ebraico.
Altra possibile soluzione al problema dell'espulsione da scuola, era quella scelta dai miei genitori che avevano preferito organizzare lezioni private a casa. Alla fine di ogni anno dovevamo presentarci alla scuola pubblica per l'esame da privatisti. Osservando oggi la mia pagella dell'anno scolastico 1941/42 (seconda elementare) non posso fare a meno di notare la grossa scritta «privatista» e in alto, in bella calligrafia, «Razza Ebraica». Quando andavo a sostenere gli esami, era come se al braccio avessi la stella gialla.
Per molti altri aspetti della vita quotidiana noi bambini ebrei avevamo gli stessi problemi degli altri bambini di Genova. Ho vaghi ricordi dei bombardamenti. Non mi sono mai dimenticata però quello del 22 ottobre del 1942, in cui bruciò il negozio di mio padre in via San Lorenzo: papà passò tutta la notte seduto sui gradini della chiesa guardando disperato il suo negozio che bruciava senza poter intervenire. Il lavoro di tanti anni se ne andò in fumo in poche ore. Questi eventi furono determinanti per far decidere a mio padre a lasciare Genova.
Siamo stati a Viareggio per qualche mese, poi a Santa Margherita per altri mesi e quindi a La Squazza e a Caregli. Poi iniziò l'occupazione tedesca dell'Italia e i miei genitori decisero di espatriare, alla volta della Svizzera.
Partimmo in cinque, con sei guide, sotto il comando di un ragazzo alto e robusto che mio padre chiamava “il capo”. Mio fratello e io fummo subito messi sulle spalle delle guide e il gruppo iniziò la traversata dall’Italia alla Svizzera a piedi, su sentieri innevati. Era il quattro gennaio del 1944, una data che non dimenticherò mai.
Fummo intercettati durante il cammino dalle guardie svizzere, che ci portarono subito al posto di frontiera e dopo ore di attesa, in tarda mattinata, finalmente la risposta: potevamo entrare in Svizzera!
Così cominciò la nostra vita di profughi.
Attraverso i racconti dei profughi di mezza Europa mio padre e mia madre si resero conto della tragedia che aveva colpito il popolo ebraico.
Era l'aprile del 1944 quando per la prima volta in vita mia andai a scuola, avevo già 9 anni. Proprio in questa scuola per la prima volta compresi il significato della discriminazione. Fummo accolti a sputi in faccia e a parolacce, perché, se in Italia eravamo «sporchi ebrei», in Svizzera eravamo diventati «sporchi italiani fascisti». La situazione divenne difficile; ricordo che i genitori facevano a turno per accompagnarci a casa perché lungo la strada venivamo presi a sassate.
Finita la guerra poco per volta tutti ripartirono per l'Italia. Noi, per volontà di mio padre, partimmo per ultimi; papà, che era stato fascista della prima ora e che non aveva nulla da rimproverarsi, aveva paura di tornare, perché aveva saputo di ritorsioni violente contro gli ex-fascisti.
Quando arrivammo a casa a Genova, suonammo alla porta senza sapere chi avremmo ritrovato: ci aprirono i nostri nonni, che disponevano di una sola stanza perché il nostro appartamento, che era stato requisito dai fascisti repubblichini, era ancora occupato. Passò ancora molto tempo prima che potessimo riavere casa nostra.
Ricordo in modo molto vivo il mio ingresso nella scuola italiana. A quei tempi le bambine dovevano portare il grembiule nero e noi non avevamo assolutamente soldi da spendere per un grembiule, così mia mamma mi aveva adattato la camicia nera di mio padre. Ricordo come questo grembiule nero mi bruciasse addosso, lo trovavo insopportabile, mi faceva provare un vero e proprio disagio fisico.
Soltanto dopo alcuni mesi, dopo aver stretto amicizia, ho scoperto che tutti i grembiuli delle mie compagne di classe erano stati ricavati dalle camicie nere dei padri.

Chiara Bricarelli
(Intervista a Pupa Dello Strologo)

Testo adattato da: Chiara Bricarelli (a cura di), Una gioventù offesa, Firenze, Giuntina, 1995.