Liliana Segre è un’attivista e politica italiana, superstite dell’Olocausto e attiva testimone della Shoah italiana.
Il 19 gennaio 2018 è stata nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella “per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale”.
Il 29 gennaio 2020, davanti al Parlamento Europeo, Liliana Segre ha ricordato una bambina prigioniera del campo di concentramento di Terezin che aveva disegnato una farfalla gialla che vola sopra i fili spinati.
Raccogliamo la sua richiesta di essere come quella farfalla gialla, che voli sempre sopra i fili spinati.
Nell’Italia fascista, e non solo in Italia, persecutori e perseguitati erano stati parte della stessa società, vestivano allo stesso modo, e spesso la pensavano allo stesso modo sul regime. Eppure venne un giorno in cui i primi decisero che i secondi non avrebbero più potuto insegnare o imparare, lavorare o possedere, fare impresa o risparmiare, per via della fede dei loro genitori, anche se persa e non tramandata.
Un giorno, mentre eravamo a tavola insieme ai nonni, sentimmo alla radio che da novembre gli ebrei avrebbero subito una serie di restrizioni. Quel momento è rimasto impresso nella mia memoria come un fermo immagine. Di quell’attimo ricordo tutto: il volto della domestica ritta in piedi che serviva dal piatto da portata, i dettagli della sala da pranzo, l’ordine in cui eravamo seduti, le espressioni di mio papà e dei miei nonni. Mi guardarono e mi comunicarono che non sarei più potuta andare a scuola. Non avrei potuto frequentare la terza elementare. Io ero figlia unica, orfana di madre, e anche per questo andavo a scuola volentieri.
Improvvisamente venivo espulsa dal mio mondo. Quella parola – «espulsa» – pronunciata da mio padre fu per me uno shock. Quando a un bambino si dice «Sei stato espulso da scuola», lui si convince di aver fatto qualcosa di sbagliato: è stato espulso perché ha una colpa. E infatti replicai: «Ma perché? Che cosa ho fatto?». Ci volle molta pazienza e grande tenerezza per farmi capire – per quanto potessi capire allora – che non ero stata io ad aver fatto qualcosa di male.
Si trattava di una legge che aveva stabilito che tutti gli ebrei dovessero essere «espulsi» dalla scuola e da molte altre attività. In quell’autunno fu promulgata una infinita serie di divieti che a poco a poco ci avrebbero spogliato di ogni diritto, le famose Leggi razziali: gli individui «di razza ebraica» furono espulsi dall’esercito, dalla pubblica amministrazione, dalle università, dalle assicurazioni e dalle banche, fu vietato loro di esercitare moltissime attività commerciali, di possedere immobili e aziende oltre un certo valore, di sposarsi con «ariani», di prestare servizio nelle loro case o semplicemente di possedere un apparecchio radiofonico.
Se ripenso a quello che ho vissuto, provo una pena infinita per la ragazzina che ero, per quella Liliana di cui oggi potrei essere la nonna. Ero una formica in un formicaio, ma senza neanche una briciola di pane da trasportare. Anche fra i prigionieri sono sempre stata un paria. Non avevo alcuna qualità utile: non ero furba e parlavo solo in italiano. Mi sarebbe potuta succedere qualunque cosa. La sensazione di costante oppressione sviluppata nel lager me la sono portata dietro per tutta la vita e mi seguirà come un’ombra fino all’ultimo secondo. Molti ragazzi spesso mi scrivono: «Lei è un’eroina». Niente di più sbagliato. Io non sono affatto un’eroina, io sono sopravvissuta per caso, non ho fatto mai nessun gesto di cui essere orgogliosa, nessun atto di ribellione… anzi. Ho sempre subito passivamente quanto mi succedeva intorno. Mi sentivo annullata.
Nel lager eravamo tutte – giovani e adulte – annullate. Annullate è la parola giusta.
In situazioni come quelle è quasi impossibile comportarsi da eroi, perché le privazioni, la fame, il digiuno forzato ti spingono a pensare solo ai tuoi bisogni più urgenti, il cibo su tutti. E quella dipendenza dal cibo ti toglie la dignità, perché chiunque abbia un’ossessione – che si tratti di un innamoramento folle o della voglia di vincere una gara a tutti i costi – relega tutto il resto in secondo piano. E se la tua vita ruota attorno al momento in cui ti daranno da mangiare, vuol dire che sei sceso al livello delle bestie. E così eravamo noi.
Il 25 aprile 1945 gli eserciti americano e russo si congiunsero.
Ricordo di aver visto il capo del campo buttare la pistola per terra. Era un uomo terribile, crudele, che picchiava selvaggiamente le prigioniere, e in quel momento una parte di me avrebbe voluto raccogliere la pistola e ucciderlo. Fu un istante di vertigine, durante il quale mi sembrò che si fossero invertite le parti: forte io e debole lui. Guardavo l’arma, feci per prenderla convinta di potergli sparare, sicura che ne sarei stata capace. La vendetta mi sembrava a portata di mano. Ma di colpo capii che non avrei mai potuto farlo, che non avrei mai saputo ammazzare nessuno. Questo fu l’attimo straordinario che dimostrò la differenza tra me e il mio assassino. E da quel preciso istante fui libera. Veramente libera, perché ebbi la certezza di non essere come lui, di essere un’altra cosa: era un’altra l’etica che avevo imparato dalla mia famiglia, l’etica del rispetto, una cultura di vita, non di morte. Che tornasse pure a casa sua, ma che le sue notti fossero terribili e popolate dai fantasmi di chi aveva ucciso.
Orrori come quelli del nazismo e del fascismo non sono accaduti perché un esercito ha imposto con la forza bruta le sue regole a una popolazione recalcitrante. Se Hitler e Mussolini sono riusciti a tenere in pugno i rispettivi Paesi è perché hanno potuto contare sul sostegno e sulla complicità di una vastissima percentuale di tedeschi e italiani. Per questo è importante, ancora oggi, educare le persone, tenere vivo il ricordo delle ingiustizie che intere nazioni hanno commesso in passato. Non è un lavoro facile, perché sforzarsi di ragionare con uno che – senza aver vissuto durante il fascismo – ti parla del Ventennio come dell’età dell’oro è tutt’altro che semplice.
Se una società arriva ad accettare l’idea che si possano vendere delle vite umane in cambio di denaro, vuol dire che è scesa a un livello di abbrutimento assoluto. Perché un popolo completamente anestetizzato, abituato all’orrore, è sempre pronto a voltare lo sguardo, è sempre disposto a ignorare la richiesta d’aiuto di un fratello che soffre, a tradire la fiducia di un vicino in pericolo. Da anni, ogni volta che mi sento chiedere: «Come è potuto accadere tutto questo?», rispondo con una sola parola, sempre la stessa. Indifferenza.
Lettura e interpretazione di Simona Garbarino.
Il testo è una composizione di parti tratte dal libro Enrico Mentana – Liliana Segre, La memoria rende liberi. La vita interrotta di una bambina nella Shoah, Milano, Rizzoli, 2015.